
Se fossi un animale, probabilmente sarei un gatto, o una civetta. La mia indole mi spinge ad essere creativa di notte, e riflessiva di giorno.
Perché di notte si assaggia un’atmosfera oscura, a molti sconosciuta, misteriosa. Perché la notte culla i miei pensieri, fa riaffiorare ricordi piacevoli e rivivere momenti meravigliosi.
Perché tutto ciò che vedo è diverso, e ha un sapore amaro ma vero. Il giorno appartiene alla quotidianità, al lavoro, agli impegni. La notte è il mio luogo di riconciliazione. Saggio me stessa e mi faccio domande. Che cosa sogno? In realtà non mi serve dormire per sognare. Mi è sufficiente avventurarmi nei meandri del mio strano mondo e succedono gli eventi più inaspettati. Per esempio, ieri notte ho incontrato Dostoevskij. Mi ha chiesto se ero mai stata a San Pietroburgo.
“No” gli risposi.
“Allora perché tutta questa passione per la cultura russa?” chiese, sbalordito.
In realtà ho mentito. Perché io ci sono stata, a Pietroburgo. Solo, non adesso. Ma in un’altra epoca. In una occasione così rara ed irripetibile che raccontarla sembrerebbe banale.
Ma dato che il caro Fëdor ama i racconti, ho provato ad abbozzare qualcosa.
Quel primo amore che sorge a mezzanotte (prima parte)
Era una notte fredda di un inverno iniziato prematuramente, dato che era il 23 novembre. Era talmente freddo che nonostante avessi il cappotto pesante, i guanti e il cappello, non riuscivo a muovermi. Mi diressi poco dopo la Neva, in una piccola osteria. C’erano solo uomini, tra l’altro tutti ubriachi. Chiesi del té nero per scaldarmi e il cameriere mi rise in faccia: credo che la bevanda meno alcolica a cui erano abituati fosse la vodka. Ma me lo preparò lo stesso, facevo leggermente pena.
Pochi minuti dopo, un giovane uomo si avvicinò e cominciò a parlarmi: Come ti chiami?, mi chiese, in russo. Gli risposi e cominciammo a conversare e senza che ce ne rendessimo conto, si era fatto giorno. Dentro di me pensai che era da molto tempo che non incontravo un ragazzo così intelligente e sensibile. Gli occhi chiari e il capello scuro gli conferivano un’aria solenne, poi smorzata dalla sua ilarità e dal suo umorismo. Aveva una divisa da generale, da ciò si arguiva che prestava servizio nell’esercito imperiale. Il suo nome era Sergej. Mentre mi riaccompagnava a casa, mi disse che l’esercito si stava preparando a una stretta terribile. Ma sfortunatamente (o forse fortunatamente, non saprei) non capivo di che cosa si trattasse. Mi guardò a lungo e mi chiese: “Quando vi posso rivedere, krasàvitsa*?”
“Fosse per me, vi rivedrei anche domani” risposi io.
Come quegli astanti erano allucinati dall’alcol che avevano bevuto, così io ero fuori di me per l’effetto che mi fece quel giovane. Era come se mi avesse somministrato il più potente dei filtri d’amore. E mi sentivo preda di quello che era il mio stregone.
Tornai a casa che erano ormai le otto passate. La cucina era in disordine dalla sera prima. Comprensibile, dato che vivevo da sola, con un gatto bianco e nero… Cosa che poco si addiceva a una giovane donna nel diciannovesimo secolo, però tant’è.
Rigovernai e mi addormentai.
Passò qualche giorno e rividi il generale di quella strana notte. Questa volta in abiti più semplici, ma comunque elegante. Erano le cinque del pomeriggio e la Neva era ghiacciata. Non nevicava ma si percepiva un’atmosfera che preannunciava una forte precipitazione. Sergej mi invitò a casa sua, mi fece appoggiare il pastrano nel soggiorno, dove il suo maggiordomo personale aspettava un ordine. Si intuiva che Sergej era nobile, e la sua nobiltà era più d’animo che di lignaggio. Ma in ogni caso, l’appartamento era enorme, arredato con una cura quasi maniacale e ricco di libri di filosofia. Mi parlò a lungo di suo padre, noto diplomatico il cui prestigio era noto fino a Roma. Aveva girato mezzo globo e nondimeno aveva curato l’educazione del figlio in maniera impeccabile. Mentre della madre disse poco, solo che la sua più grande passione è la musica di Händel.
In ogni caso, tutti in famiglia parlavano fluentemente il francese, oltre al russo.
Sergej ci sapeva fare, dicono, con le donne. Era affabile, premuroso, abile nella conversazione e nell’intrattenere. Molto spesso, infatti, aveva seguito il padre durante i suoi viaggi di affari, e tra il personale diplomatico erano presenti molte dame inglesi, francesi e italiane. Sergej ne aveva conosciute tante, s’intende per scopi meramente amicali. Eppure era attratto dal gentil sesso, come questo era attratto da lui.
Era indubbiamente bellissimo, non tardai molto a cadere fra le sue braccia. E mi baciò come se volesse divorarmi, in una notte che sembrava infinita. Il tempo si era dilatato e ciò che succedeva all’esterno era per noi privo d’interesse. Quando ormai i desideri carnali si erano affievoliti, era quasi giorno. Le 4 di un giorno che si può definire la vigilia di uno dei più importanti episodi della storia.
Era il primo dicembre 1805. Sergej mi salutò e mi disse che doveva correre a combattere contro i francesi. C’era un programma militare da rispettare, qualche strategia da affinare e da questo evento poteva dipendere la nostra vita futura. Io ero una sciocca ragazzina ingenua di 19 anni, capivo soltanto che, forse, non ci saremmo più visti. Scoppiai in lacrime. A lungo rimasi a piangere al capezzale. Mentre l’esercito russo schierato con quello austriaco si preparavano a quella che sarebbe stata la battaglia di Austerlitz, io piangevo come una dannata. E non mi rendevo conto di nulla. Sciocca che ero.
I giorni successivi furono tutto tranne che banali. Una storia capovolta. Una vittoria inaspettata dei francesi. Vedevo una gran folla fuggire in campagna per paura che i francesi occupassero Pietroburgo. Io, da quel momento, cominciai a tremare. Avevo davvero paura, quel che avevo sotto gli occhi era terribilmente spaventoso. Ed io ero sola.
Uscivo solo per comprare le provviste, e intravedevo qualche soldato della gendarmeria francese che mi fissava. Tutto questo si ripeté per molto tempo. La mia vita era diventata monotona e pensavo costantemente a Sergej, a come stava, a quando lo avrei rincontrato. Giunse una notizia da Mosca: i soldati russi stavano rientrando a Pietroburgo dopo giorni di agonia e mancanza di viveri. Attesi e sperai per il meglio.
Ma sembrava che le buone notizie tardassero ad arrivare. Dopo qualche tempo, qui a Pietroburgo scoppiò una specie di rivolta, di nuovo non avevo idea di cosa fare. Non lavoravo da giorni e le mie giornate erano tutte uguali. Le ore scorrevano lente e pigre. Quasi mi rassegnavo alla sorte che sembrava avversa. Un giorno decisi di andare a casa di Sergej. Il portone era chiuso, ma c’era una luce accesa: evidentemente la casa non era disabitata. Bussai due volte e mi aprì una donna bellissima, mora con enormi occhi castani.
Mi chiese chi ero, “Un’amica di Sergej” le risposi tremando. Mi invitò ad entrare dicendomi che ancora non aveva avuto sue notizie. Lei si chiamava Irina, ed era la cugina: mi offrì una tazza di té e tacque per tutto il tempo. Forse era timida, dall’atteggiamento si arguiva la sua giovane età. La ringraziai per l’ospitalità e mi congedai da lei.
Appresi le prime notizie di Sergej il giorno successivo: mi scrisse una lunga lettera nella quale raccontava i dettagli della disfatta. Diceva che per lungo tempo sarebbe stato a Mosca per un nuovo addestramento militare. Non scrisse nulla che mi facesse sperare in un suo ritorno a Pietroburgo. Io, d’altra parte, avevo pochi spicci e non potevo certo spendere tutto per un viaggio a Mosca. La mia risposta era piena di amarezza.
Io qui mi interruppi nel raccontare, si stava facendo troppo tardi…
La seconda parte nel prossimo articolo.
“Dovremmo navigare per sempre, e vivere per sempre”
[dal film Arca russa di Aleksander Sokurov]
* Krasàvitsa (красавица): letteralmente “bellezza”
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